La psicanalista Silvia Di Lorenzo, nel suo libro La Grande Madre Mafia scrive:
Recentemente ho appreso, dai giornali e dalla televisione, di donne subentrate a capo di organizzazioni criminali mafiose e sempre più indissolubilmente legate all’ambiente mafioso. Sconcertata, mi sono chiesta se la donna del Sud da omertosa spettatrice o da vittima della mafia e talora da coraggiosa denunciante si stia trasformando in carnefice. Come è possibile e a che cosa è dovuta questa trasformazione terribile e repentina di ruolo e mentalità, di valori e tradizioni secolari a cui le donne del Sud sembravano sensibilmente legate? La donna, datrice di vita, cosa ha da spartire con le organizzazioni criminali mafiose, foriere di odio e di morte? Lucia B., S. Casciano – Firenze Tra la natura della mafia e la natura della donna esiste una sotterranea parentela. Detta così la cosa può sembrare provocatoria e al limite offensiva, ma siccome le lettrici di questa rubrica non si fermano agli effetti di superficie, è possibile indagare questo strano sottosuolo che accomuna la mentalità mafiosa alla mentalità materna. Del resto la cosa è nota a tutti i bambini di questo mondo che, quando non riescono a ottenere le cose dal padre, ricorrono alla madre, non perché la madre è "più buona", ma perché ha più confidenza e familiarità con la "deroga" che con la "regola", con l’infrazione che aggiusta le cose quando si presentano nella loro contingenza e particolarità, che con la legge generale che è uguale per tutti. Già lo psicanalista Franco Fornari aveva definito "codice materno" la facilità di soddisfare i bisogni e di appropriarsi in modo onnipotente di tutto ciò che si vuole, a dispetto della legalità, della realtà, della fatica che comporta ogni vera conquista. E tutto ciò infrangendo il "codice paterno": quello della Legge del Padre che prescrive le regole e non le scorciatoie. Nella mafia prevale il principio materno del clan, del legame di sangue (concreto o simbolico), della solidarietà intesa come complicità tra i membri dello stesso gruppo. Il principio di appartenenza al clan e il principio di identificazione con il clan favoriscono quella simbiosi che nel linguaggio mafioso si chiama "famiglia", le cui esigenze vengono prima del dovere verso lo Stato. Il rapporto soggettivo della reciproca conoscenza personale prevale su quello oggettivo di cittadini. E tutto ciò se dalla mafia è ben evidenziato, non lo è meno nella società civile dove la conoscenza personale, e di conseguenza la raccomandazione, hanno sempre il sopravvento sulla valutazione oggettiva dei meriti. Già il sociologo Ferdinand Tönnies (1855-1936) nel suo libro Società e Comunità avvertiva nel secolo scorso che mentre i popoli mitteleuropei appartengono a una società protetta da leggi che rispettano, e quindi non hanno bisogno di ricorrere ad altri per chiedere aiuti e favori, i popoli mediterranei appartengono non a una società (Gesellschaft), ma a una comunità (Gemeinschaft), dove per ottenere qualcosa devono coltivare amicizie influenti, fare favori e ricevere favori. Dal punto di vista antropologico e psicologico la concezione che è alla base della comunità familistica, ma non della società civile, è la logica del clan, del legame di appartenenza, quindi una logica di sangue che determina quella morale materna basata su una complicità e solidarietà indissolubili e indiscutibili, perché il sangue non conosce mediazioni e il potere basato sul sangue, al pari del potere della donna, è potere di vita e di morte. Ciò non significa che i mafiosi manifestino caratteri femminili, anzi tengono moltissimo a mostrare il carattere virile del loro comportamento, ma questo non ci deve trarre in inganno. Il legame con la madre, e più in generale con il codice materno, è ben più profondo. È simbolico, è archetipico, nel senso che il loro io resta imbrigliato nel regno materno, nel regno della Grande Madre, che nella cultura mediterranea ha preceduto la nascita degli dei uranici, senza poter raggiungere la Legge del Padre. La quale, spezzando il legame simbolico tra i figli e la madre (Mammasantissima), porta fuori dalla comunità dove funzionano solo i rapporti soggettivi di parentele e affiliazione, per immettere nella società dove dovrebbero funzionare solo i rapporti oggettivi di cittadini di fronte alla legge. Se tutto ciò ha una sua plausibilità la lotta alla mafia non è solo un problema di polizia e di politica, ma è un problema di cultura che affonda le sue radici nella notte dei tempi. E qui le donne possono dare il maggior contributo, perché più degli uomini conoscono, per natura, il codice familistico di cui, proprio perché ne sono espressione, possono essere anche lo strumento più attrezzato e più efficace in ordine al suo superamento. Infatti, mentre l’uomo mafioso non sa di nuotare in un codice materno, la donna profondamente lo sa, e ne conosce anche tutti i registri.